Luce, ombra, inconscio, libertà. Ci immergiamo nei paesaggi sensoriali di Simone Bossi, architetto e fotografo d’architettura, dove l’immagine fotografica acquisisce una profondità mutevole ed effimera, capace di esplorare gli strati dello spazio con intensità, misura e trasporto emotivo. Un rapporto magnetico lega la fotografia e gli spazi, vibrazioni in tensione tra uomo e architettura.
Il tuo percorso inizia alla facoltà di architettura, per poi spostarsi sulla fotografia. Come nasce questa tua passione?
Nell’immaginario di tante persone la facoltà di architettura dà l’idea di rigidità, in realtà credo sia un mondo vastissimo in cui si toccano strade diverse e collaterali di pari livello e pari interesse. Ho studiato in Italia, Spagna, ho vissuto e lavorato in alcuni studi in Olanda e Svizzera, aspetto che ha sicuramente esteso la mia geografia base fin dalle radici. Non avevo mai preso in considerazione di non fare l’architetto, quasi con una forma di “rigidità” estrema. Mi viene in mente una citazione tratta dal film Stalker di Tarkovskij: “…così come l’albero, mentre cresce è tenero e flessibile, e quando è duro e secco, muore”. Ecco, l’ultimo anno di università ho lavorato per un fotografo a Milano, Paolo Rosselli. Stavamo le giornate intere su un’immagine sola, era davvero intenso. È Lì che ho sentito “il passaggio” tra architettura e fotografia. E non era collaterale o leggero. La mia fortuna è stata che lui era estremamente riflessivo e silenzioso, caratteristica che in realtà è fantastica, perché c’erano delle tracce nell’aria, ma non essendoci una vera e propria spiegazione tutto il lavoro era interiore. Questo mi portava a declinarlo sulla mia persona, con un estremo rispetto della “soggettività”. Come una camminata in una città nuova, non sai cosa ti attrae, ma inizi a “respirarla”. È stato il mio primo vero respiro della fotografia.
Qual è la tua ricerca attraverso la fotografia?
La fotografia in sé mi attrae quasi più da fruitore, perché mi permette di fruire lo spazio, di comprenderlo, di esserne partecipe, di condizionare il mio umore, di proiettare ogni tipo di sensazione in questa esperienza. Per me non è mai un fine, è un mezzo, uno strumento di conoscenza dello spazio… Che poi in fondo è conoscenza di se stessi. È quasi una metafora, no? È una scoperta di qualcosa attraverso se stessi e di se stessi attraverso qualcosa. Ma è un aspetto che ho iniziato a capire nel tempo.
E come avviene il primo scatto?
Per me il momento dello scatto è una liberazione. Poi, lavorando in pellicola, il primo scatto è lunghissimo, il primo scatto è un disastro, è bellissimo. È come quando ti rapporti a una persona per la prima volta, lì è la misura.
È quasi un rapporto prossemico con lo spazio in cui ti trovi, si tratta di dare le giuste distanze.
Sì, completamente. È un lavoro che si dilata e si contrae. La prima fotografia è una fisarmonica. E poi ci sono gli spettatori, ovvero le luci, le ombre che si muovono, che cambiano, che mutano. È questo che mi spinge fisicamente, è un trasporto emotivo molto accentuato.
Le performance che ti richiedono hanno punti di contatto con la tua ricerca personale?
Ciò che mi interessa è l’esperienza spaziale, che può essere ovunque. Quindi lavoro e ricerca probabilmente sono la stessa cosa, non sento il dovere di distanziarli. In questo modo, rispettando me stesso, ne emerge una conseguenza: inconsciamente richiamo un tipo di persone che probabilmente ha dei punti di contatto con me. Più ho rispettato me stesso, più mi sono avvicinato a dei progetti che mi piacevano molto. Quasi come un’attrazione magnetica. Anche qui, non ci deve essere nessuna rigidità.
Quindi non hai dei veri e propri riferimenti visivi?
Mi affascina molto il discorso sulla soggettività in diversi ambiti artistici, anche in quello musicale. Il suono è incredibile: quando sento parlare alcuni cultori musicali partendo dalla costruzione e dalla storia che sta dietro a un brano musicale, mi rendo conto che è un universo vastissimo. Parlano di temperatura, di paesaggi, di colore… È qualcosa che non può terminare in un risultato tangibile, fisico. Ecco, queste sono esperienze forti. Poi ho dei riferimenti visivi, ma si tratta soprattutto dell’espressione artistico-concettuale di aspetti che non c’entrano nulla con l’immagine. E questo è interessante perché è un approccio aperto.
Cerchi una particolare condizione per scattare una fotografia?
La domanda è: devo fotografare solo se sento una particolare condizione? No, fotografare un progetto è come fotografare una persona, fotografare se stessi, fotografare l’architetto. C’è un mondo psicologico particolarmente complesso dietro ad una fotografia ed è incredibile come lo spazio rifletta tutto questo. Anche le architetture che non ci piacciono svelano degli aspetti che poi fanno rivalutare tutto.
Quindi attraverso la ricerca psicologica ottieni una ricerca estetica.
Sì, ed è proprio questa profondità che mi affascina. Se “ascolti” molto bene, avendo la fotografia come conseguenza e non come fine, riesci a capire quanto andare “dentro”. E arrivi dentro con la macchina fotografica, con gli occhi… Ti interessa quel dettaglio specifico perché rivedi te stesso, riesci a proiettare te stesso. C’è tantissimo inconscio ed è un rapporto molto sudato, faticoso… ma spontaneo.
Parli dell’architettura come di una persona da guardare, ascoltare, ma la figura umana compare raramente nelle tue fotografie. Perché?
Inizialmente avevo molti miti e modelli di riferimento, anche molto differenti tra loro, dai quali attingere. Poi pian piano, conoscendomi, ho capito che cercare di diventare quello che non sei non funziona. Io preferisco le mie domande, le mie insicurezze, le mie fragilità e anche il cambiare di questi stati nel tempo, in fondo siamo ombra e luce della stessa persona. Quindi la presenza della persona ha iniziato a interessarmi per questi aspetti più inconsci e psicologici.
La considereresti una presenza assenza?
Direi che è la presenza in prima persona. È il fatto di portare me stesso fino all’ultima linea possibile davanti alla fotografia, affinché possa essere libero di proiettarmici dentro. Non mi interessa nemmeno quasi descrivere visivamente una cosa oggettiva, quanto più un ragionamento totalmente soggettivo. Ognuno di noi ha il proprio immaginario, il proprio storico, la propria struttura. A me interessa attivare questo meccanismo per cui chi fa esperienza dello spazio attraverso la mia fotografia vada in una direzione che molto probabilmente è anche molto diversa da quella che mi ha spinto a scattare. Libertà. Questa è la presenza umana nella mia fotografia.
Forse perché nella costruzione di un’immagine, ciascuno si sofferma su ciò che è capace di “assorbire”.
Sì esatto, è un po’ il livello successivo di quello che abbiamo detto finora, è tutto legato al concetto di “immedesimarsi”. Ciascuno vede ciò che sa, ciò che è. Ed è incredibile. In questa espressione dell’inconscio si cela qualcosa di molto potente in questi frangenti e mi affascina lavorare in queste condizioni affinché chi riceve l’immagine riesca ad immedesimarsi nella situazione di quel momento attraverso la mia, costruendo però un suo percorso completamente personale. Tutto questo può declinarsi in un metodo, in un approccio, in una teoria. Ma poi la pratica è soggettiva, quindi ogni volta il risultato è singolare.
Mi viene in mente un testo di Vittorio Lingiardi, “Mindscapes”, psiche del paesaggio o paesaggi della psiche.
Sì, esatto, una riflessione che faccio sempre è su quali sono i processi che fanno sì che una nuova immagine si radichi nel mio immaginario… E purtroppo posso declinarlo solo su me stesso. Come fa, quell’immagine, ad avere la forza per essere talmente incisiva da rimanere lì? E, analogamente, per quale processo, nella costruzione di un’immagine, ripeschiamo frammenti dagli immaginari delle nostre “ere precedenti” che sono rimasti addormentati, fermi? Per questo mi affascina l’idea di poter essere un autore – come costruttore di immagini – e avere la fortuna di lasciare una o due immagini nella mente di qualcuno.
Pensi che il tempo dedicato allo scatto su pellicola incida su questo processo di costruzione dell’immagine?
Sì, è un po’ un viaggio. Devi raggiungere un luogo remoto e puoi scegliere se prendere l’aereo che arriva con la pista d’atterraggio fin lì oppure prendi la macchina, quattro amici, e ci arrivate in un mese. Arrivate nello stesso posto, ma l’esperienza è filtrata in maniera diversa. Quindi la tecnica risponde ad una conseguenza di un approccio. Ho imparato a rispettare una sorta di bio-ritmo e trovo, nella mia velocità, che l’approccio stesso alla pellicola sappia rispettarlo. Rispetto al digitale trovo che il film e la pellicola mi puliscano lo sguardo. Con il digitale hai tre opzioni davanti e le scatti tutte e tre. Il tema del rimando della scelta è un po’ figlio della nostra contemporaneità. Rimettere sempre in discussione, sostituire… Con il film non solo ne scegli una, ma tieni anche il difetto nel caso ce l’abbia. E partono tutta una serie di meccanismi legati all’estetica dell’imperfezione. Magari non era lo scatto migliore, ma in quel momento hai sentito che lo fosse e la tua scelta assume un peso che va al di là dello scatto in sé, è carica di profondità. Il processo non è solo durante lo scatto, è un processo vivo e a un certo punto finisce. Quando finisce il rullino devi decidere: o ne metti un altro o la cosa è finita. E se la luce è andata, la cosa è finita. Per questo io la chiamo performance.
È un’esperienza che si porta dietro una carica fisica, emotiva, umana.
Sì, la ricchezza di questa professione a volte sta anche nella ricchezza della diversità di esperienze che fai. Tempo fa sono stato in Nepal da alcuni monaci buddhisti a fotografarne il dormitorio. Ci sono andato a piedi, mi sono perso, sono rimasto bloccato nel monsone tre giorni in mezzo alla nebbia. Mucche, asini, terra, fango, pendenza, sporco, sudore, nebbia. È stato incredibile. Dieci giorni dopo fotografavo un albergo di lusso. Per me digerire questi “shock visivi ed esperienziali”, che poi traduco in ricordi, è molto intenso.
Ultima domanda, c’è qualcosa, una direzione che vorresti percorrere nel tuo futuro? Anche latente, non per forza legata all’architettura.
È una domanda difficile e facile. È facile perché la risposta più onesta è “non lo so”. Come tutti, magari sono affascinato da lavori, situazioni, luoghi, città, però credo che non sia importante dove si declini l’esperienza, perché a me interessa l’esperienza in sé, anche se non so cosa sia. Mi interessa più capire cosa a livello sensoriale e percettivo cosa accadrà di nuovo e come questo si proietterà e questo può avvenire in un’infinità di modi. Quindi fondamentalmente, se dovessi dare una risposta, mi interesserebbe approfondire la parte di ascolto, mi piacerebbe fotografare gli altri sensi, capire, ad esempio, quanto evolverò nell’affinare il mio orecchio e come questo mi permetterà prima o poi di rivelare nuove ed inaspettate immagini.