L’esilio culturale durante gli anni della guerra mondiale ha spinto architetti, artisti e intellettuali ad allontanarsi dalla propria inospitale madrepatria e a continuare la propria attività in luoghi lontani dalla pressione antisemita. Accanto a loro, più sfortunati, lunghi elenchi di identità perdute. Professionisti cui è stata negato il diritto all’espressione artistica, radiati dagli albi, esclusi e cancellati senza possibilità di obiezione
Quando nel 1797 Francisco Goya incideva “Il sonno della ragione genera mostri”, non poteva immaginare che il Novecento avrebbe dato luogo ad uno dei momenti più drammatici della storia dell’umanità.
Crimini d’odio, conflitti e manifestazioni di umore razzista erano le ventate anticipatorie che si insinuavano nel quotidiano degli anni appena precedenti la Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza fascista – e poi nazista – era ormai impressa nell’aria. Discriminazione e paura diventavano i nuovi sentimenti popolari che spingevano la società verso uno dei momenti d’oblio più terribili.
Personnes, titolo di un’istallazione artistica di Christian Boltanski – figlio di padre ebreo –, gioca sull’ambiguità del termine francese: al singolare significa “nessuno”, al plurale “persone.” Non direttamente collegata all’Olocausto, l’opera del 2010 per il Grand Palais di Parigi si presenta come un’incessante interrogazione sulla memoria. Numerosi gli elementi che ricorrono nell’evocazione della Shoah, tra cui la presenza degli abiti come “equivalente del corpo”, immagine che rimanda inevitabilmente al momento di svestizione all’arrivo al campo di concentramento. Al momento in cui, oltrepassata la soglia, migliaia e migliaia di persone furono obbligate a svestirsi delle proprie identità.
Le leggi razziali rappresentano la triste apoteosi di un lungo processo di mutamento del sistema normativo italiano ed europeo, oltre che socio-culturale. In Italia, il 29 giugno del 1939 si emanava la cancellazione degli ebrei dagli albi professionali (L. 29 giugno 1939-XVII, n. 1054, Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica – GU n. 179, 2 agosto 1939), obbligando alla totale cessazione di “qualsiasi prestazione professionale da parte di cittadini di razza ebraica”.
Contemporaneamente, una lunga e difficile migrazione di intellettuali del panorama culturale europeo inizia a tracciare le rotte di fuga dalla propria inospitale madrepatria. Tuttavia, la forza motrice di questo processo non ha radici esclusivamente nell’antisemitismo, ma più ampiamente nell’oppressione di ogni forma di possibile minaccia politica e culturale. Accanto alle altre, lunghe liste di architetti iniziano a segnare l’esodo di un enorme esilio artistico.
Erich Mendelsohn, radiato dalla lista del “German Architects’ Union” ed escluso dalla Prussian Academy of Arts; Marcel Breuer, allontanatosi dalla Germania nazista nel ‘36 su consiglio di Gropius, ormai già negli Stati Uniti da due anni; Hilberseimer, segnalato dalla Gestapo nel 1933 insieme a Kandinsky e fuggito in America come molti altri membri del Bauhaus; Bruno Taut, accolto in Giappone e poi in Turchia; Lodovico Belgiojoso, prima sostenitore del modernismo internazionale, co-fondatore di BBPR e successivamente deportato a Mauthausen.
Architetti ed artisti conosciuti, cui è stato possibile sfuggire dalle morse di una guerra drammatica. E, accanto a loro, lunghi elenchi di nomi sconosciuti. Giunti a noi senza memoria, in una voce unica. Un giardino di identità perdute, cui è stato proibito di fiorire. Cui è stato negato il diritto alla professione, all’espressione. Uomini che non hanno avuto modo di raccontare, di raccontarsi attraverso la propria opera. Uomini radiati dall’albo professionale di appartenenza, esclusi e cancellati senza possibilità di obiezione.
“L’arte del “far muro” conserva una sua particolare validità di testimonianza umana”, erano le parole di Daniele Carabi, architetto ebreo cancellato dall’albo “a difesa della razza italiana” e costretto alla fuga in Brasile. Eppure, negli stessi anni, muri e muri di mattoni venivano eretti a costruire i lager, i campi di lavoro e di concentramento disseminati in tutta Europa. Quegli stessi muri, la cui materia era ed è tuttora espressione e testimonianza di una società in continua evoluzione, diventavano in quegli anni i recinti muti di industrie della morte.
“Muerte” è il quindicesimo – e ultimo – numero del San Rocco magazine. Tra i contributi, Irénée Scalbert ricorda l’immagine di Auschwitz e la sua architettura dell’estremo funzionalismo, usando le parole di Pier Vittorio Aureli: “The barest essential of existence” . Un’architettura lontana dall’uomo, distante. Un’architettura ridotta all’essenzialismo, alla sintesi nella forma, come nel processo. Alla sottrazione. Ad una nudità che racchiude in sé il più duro senso di smarrimento, l’idea di corpo umano come mero insieme di organi atti a svolgere un compito – così come il campo di concentramento è diviso in parti, sezioni, ciascuna con la sua meccanica funzione di giungere ad un unico (disumano) obiettivo. “But how bare must the barest be?”, si chiede Irénée Scalbert. E continua: “Auschwitz demonstrates that human life offers no objective basis upon which to establish such a minimum.”
Un’architettura talmente inespressiva e funzionale, da essere ridotta alla sua stessa morte. Da essere specchio di una società dai valori morenti, vuoti. Inenarrabili. Risuonano, qui, le famose parole del filosofo tedesco di origine ebraica Theodor Wiesengrund Adorno: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile”.
Eppure, nel maggio del 1945, a Mauthausen, Belgiojoso scriveva:
Ho fame, non mi date da mangiare,
ho sete, non mi date da bere,
ho freddo, non mi date da vestire,
ho sonno, non mi lasciate dormire!
Sono stanco, mi fate lavorare
sono sfinito, mi fate trascinare
un compagno morto per i piedi,
con le caviglie gonfie e la testa
che sobbalza sulla terra
con gli occhi spalancati…
Ma ho potuto pensare una casa
in cima a uno scoglio sul mare
proporzionata come un tempio antico
Sono felice: non mi avrete.