Per essere un architetto bisogna avere un’ossessione
Con l’uscita del primo ArchiTALKS di Isplora, dedicata all’architetto e docente Renato Rizzi, inizia un percorso attraverso l’Italia degli architetti, tra pratica e ricerca, modi diversi di intendere e fare la professione. Un viaggio attraverso i luoghi e le architetture, entrando negli studi, condividendo strumenti di lavoro e idee di futuro, interrogandosi sul valore contemporaneo della professione e sul ruolo dell’architetto, svelando aneddoti e influenze, sogni e obiettivi, in quello che può essere considerata non solo come un’esperienza formativa ma come un’analisi dell’architettura contemporanea, attraverso i suoi protagonisti.
L’ArchiTALKS di Renato Rizzi muove dalla biografia e dalle esperienze lavorative e di ricerca dell’Architetto Renato Rizzi, docente ordinario in Composizione Architettonica e Urbanistica presso lo IUAV di Venezia, affrontando il ruolo della forma e del luogo nella pratica progettuale.
A partire dagli studi allo IUAV di Venezia, la masterclass ripercorre le tappe della formazione dell’Architetto Rizzi snodandosi, poi, lungo le esperienze lavorative negli Stati Uniti e gli scambi con importanti architetti quali Peter Eisenman e John Hejduk. L’idea portata in luce durante la lezione è quella della professione come un “laboratorio” e di una tensione fra le due componenti dell’architettura: l’archè e la technè, due poli che si sono disgiunti con il dominio del paradigma scientifico. Una critica supportata dallo studio e dall’approfondimento del lavoro del filosofo Emanuele Severino.
Con la filosofia di Severino è emersa lentamente una grande domanda che ho dovuto affrontare, ma alla quale ci vorrà tutta la vita per dare una risposta. La domanda è: che cosa vuol dire la parola “architettura”? La parola purtroppo - o per fortuna - è composta da due lemmi, due radici greche: “archè” e “technè.” Senza dare definizioni, dico solo che le “technè” sono quelle parti che appartengono al significato della parola architettura dove tutte le cose sono separate, mentre nella prima radice “archè,” tutte le cose sono vincolate e “eterne”. Dunque, la parola architettura sintetizza in un vocabolo il pensiero di Severino in una maniera straordinaria, perché noi (architetti) siamo nel punto di mezzo tra l'archè e la technè e dobbiamo congiungere questi due estremi che non sono commutabili, ma dobbiamo tenerli insieme...
Ma la parola architettura, nella sua straordinaria struttura, secondo Rizzi parla anche di noi, dandoci l’occasione di interrogarci su noi stessi:
Qual è la relazione tra noi stessi e architettura? Per noi, la technè è il nostro corpo, mentre l'archè è la nostra interiorità. La nostra interiorità è molto più grande del nostro corpo, che ha una dimensione data; ma sono due cose che sono in relazione.
Un lavoro intellettuale, di posizionamento, che si riflette inevitabilmente sia sul metodo che sulla pratica progettuale dell’Arch. Rizzi. Imprescindibile è la capacità di “riconoscere l’opposizione” delle due componenti dell’architettura, e di cogliere le occasioni portate dal progetto e dai luoghi, “ascoltando e non dominando”. Temi che si riflettono nella questione della “rappresentazione” e della costruzione, nella necessità della forma e nell’importanza del tempo.
Milioni e milioni di anni e in una pietra si raggruma un tempo enorme rispetto al nostro ma in questo processo di condensazione ellittica cosa succede? Succede che ci sono le ricorsività del tempo, cioè c'è il passato del tempo ma nella ricorsività si presenta anche il futuro del tempo e dunque le pietre parlano del tuo presente, del tuo passato e contemporaneamente del tuo futuro. Quando noi iniziamo qualsiasi progetto senza preoccuparci del progetto che si deve fare partiamo dallo studio dei luoghi. Proprio perché i luoghi sono come delle condensazioni, la loro forma la loro morfologia, la loro topografia, la loro geologia è una sorta di manuale di immagini che si sono consolidate in quel Luogo. Ma quelle immagini sono ricche di memoria e dunque i modelli che per esempio noi andiamo a fare prima di iniziare qualsiasi progetto e come fare delle radiografie, i raggi x, a dei luoghi in modo tale che il luogo fa riemergere la sua stessa singolarità e viene tolto di mezzo in maniera definitiva quel concetto di spazio che oggi occupa la nostra mente. Perché i luoghi nella cultura moderna sono degli spazi, ma lo spazio nel tempo contemporaneo è un concetto che è neutro, continuo, e omogeneo.
Guarda subito l'ArchiTALKS di Renato Rizzi
L’Architetto Rizzi racconta poi di progetti lunghi, densi di significati e tracce storiche come quelli per la Cattedrale di Solomon a Lampedusa, la Casa Museo Depero o il Teatro Elisabettiano di Danzica.
Il problema era: cosa vuol dire progettare oggi un teatro, dopo che l'ultimo vero grande teatro è stato progettato da Aldo Rossi e si chiamava “Il Teatro del Mondo”, un teatro che è stato costruito e demolito, cioè era un’apparizione? Il concorso è del 2004, anno in cui la Polonia diventa parte della Comunità Europea, e cioè ruota il suo sguardo in maniera definitiva dall’est verso l'ovest, da Mosca a Bruxelles. […] Il teatro Elisabettiano è un teatro dove il palcoscenico è nel centro del quadrato della platea, mentre nel teatro all'italiana il palcoscenico è messo nel punto all'infinito di una prospettiva verso il quale tutti gli spettatori devono essere orientati. Il teatro di Danzica è sia un teatro all'italiana che, soprattutto, un teatro Elisabettiano: ci sono cioè due questioni che non si possono conciliare, ma che vengono tenute insieme. Originariamente inoltre, il teatro Elisabettiano era senza tetto perché era una corte, era un’aia dove era allestito provvisoriamente un palcoscenico e tutti guardavano queste rappresentazioni dal loggiato interno. Qui il problema non era quindi mimare qualcosa di storico, ma fare qualcosa che avesse senso proprio in questo tempo. L'apertura del tetto con le ali verticali è stata proprio la soluzione che ha permesso di impostare il progetto. Il gesto di alzare le ali è un gesto che appartiene alla natura dell'uomo, è un elemento naturale che è stato portato dentro la forma. Voglio solo dire che nel teatro Elisabettiano a Danzica tutta l’impostazione formale deriva da queste considerazioni, che mettono in gioco l’Europa in quanto tale ma anche tutta la storia del teatro.
Rizzi afferma che ciò che architettura ci dà sono “le occasioni”, cioè le necessità, alle quali non possiamo rispondere “dominando” ma “ascoltando” per fare nascere i progetti.
Nei progetti raccontati da Rizzi nella masterclass emergono i tratti e la complessità della progettazione da lui proposta, un lavoro dove la figura dell’architetto diventa “testimone” e dove l’obiettivo è quello di creare “stupore”.
Se uno crede che col suo lavoro può cambiare il mondo secondo me già sbaglia: tu non puoi cambiare nulla, e io non voglio cambiare nulla. L'unica possibilità che tu hai non è di cambiare o di far cambiare le cose, è di produrre stupore affinché sia lo stupore che può essere, come dire, quella forza che fa modificare le idee.
In fin dei conti, per Rizzi “L'architettura è forma. […] La forma - lo stupore, la fascinazione cioè l'arte della forma - è la parola più nobile, che tiene insieme sostenibilità e partecipazione.”