Intervista a Claudio Lucchin, fondatore dello studio CL&AA, su progetti, processi e professione
Da qualche settimana è stato pubblicato il nuovo film di Isplora sul progetto del NOI Techpark, che vale 1 Credito Formativo CNAPPC per la formazione degli architetti iscritti all'Ordine. Insieme a Chapman Taylor il progetto è stato firmato dallo studio Claudio Lucchin Architetti Associati.
Lo studio, fondato da Lucchin nel 2004 insieme a Angelo Rinaldo e Daniela Varnier, ha sede a Bolzano e negli anni si è occupato di importanti progetti di architettura: dai palazzetti dello sport per le Olimpiadi di Torino del 2006 alla scuola ipogea Hannah Arendt a Bolzano, sino al recente CAP HQ a Milano. Con l’architetto Lucchin abbiamo avuto modo di parlare di progetti, processi e professione.
Che cosa si porta dietro l’architetto Claudio Lucchin dall’esperienza progettuale del NOI Techpark? Quali sono stati le principali difficoltà da affrontare, quali invece le proposte di maggiore interesse che emergono dal progetto di riconversione di un importante fabbrica di produzione di alluminio quale era la Montecatini?
È stata un’esperienza sicuramente entusiasmante… anche se il primo problema è che è durata più di dieci anni, iniziata il 2007 e conclusa nel 2018 con la costruzione dei laboratori.
Un’esperienza difficile da gestire, soprattutto all'inizio ci sono state avversità che mettevano in dubbio la costruzione di un polo per l’innovazione. L’architetto, in questo caso, non è solo un progettista ma assolve anche il compito di “mediatore” nel tentativo di comunicare l’importanza e l’utilità di alcuni spazi all’interno della collettività.
Un’altra difficoltà è stata quella di fare in modo che gli enti di ricerca potessero dialogare e collaborare al meglio, evitando di creare una situazione in cui ogni ente venisse confinato nel proprio spazio all’interno del polo. A distanza di un anno dall'inaugurazione inizia ad emergere la sinergia che vi è tra i vari soggetti data soprattutto dall’interazione spaziale.
Il fulcro principale rimane il lavoro, un lavoro di tipo diverso, ma rimane comunque una fabbrica, per cui gli impianti sono a vista e non ci sono le finiture di un palazzo per uffici di tipo tradizionale. Dunque, rimane l’idea di una fabbrica dove è possibile fare, sperimentare, confrontarsi e provare a far crescere il territorio anche in termini di innovazione.
Il progetto è una radiografia di questo cambiamento del modo di lavorare, una reinterpretazione dello spazio del lavoro…
Certo, il lavoro è totalmente diverso oggi, quindi non potevamo pensare minimamente di mantenere inalterate le strutture interne della fabbrica. La vecchia fabbrica, che ovviamente ha un grande pregio architettonico in stile razionalista, è stata in parte demolita e in parte recuperata e ri-abitata.
Negli spazi in cui prima vi erano trasformatori della corrente, che occupavano un notevole spazio, ora vi sono ambienti che contengono laboratori, frutto di interventi pesanti per poter utilizzare al meglio i volumi che vi erano a disposizione. Tuttavia, abbiamo tentato di mantenere lo spirito del luogo. Ai suoi tempi, la Montecatini era un’azienda con una tecnologia avanzatissima nella trasformazione dell’alluminio, era una delle più grandi in Italia.
Il nuovo edificio, il “Black Monolith”, si relaziona idealmente agli altri due edifici esistenti con dei particolari, frutto di una reinterpretazione della facciata esistente proprio per sottolineare che l’innovazione non parte da zero ma si ancora al passato, in questo caso alla fabbrica della Montecatini.
A distanza di un anno, come diceva lei, non soltanto funziona ma si rinnova, viene ri-abitato. Avete avanzato la proposta per il secondo lotto? È prevista un’ulteriore espansione?
L'area occupata inizialmente dalla Montecatini era un'area di diciotto ettari, poi quest'area è stata dismessa e si sono poi insediate delle aziende private su un’area di 12 ettari circa.
Prima abbiamo costruito la “testa” per dare casa agli enti universitari, agli enti pubblici di ricerca, ai laboratori, in modo da fare da volano alle aziende private. Ora, invece, iniziamo a modificare tutta una serie di altri volumi che servono per insediare le aziende innovative. È ovviamente un grande sviluppo, una grande rigenerazione di un'area strategica per l'università di Bolzano, in divenire. È un progetto che si rinnova di anno in anno e viene aggiornato in funzione delle reali esigenze, anche delle aziende private.
Si costruisce nel tempo e quindi si può adattare in base alle esigenze che ci sono in un preciso momento, rappresentando una visione e una strategia ampia, che si costruisce per pezzi.
È in programma l’inserimento di una nuova facoltà, a quel punto cambierà anche l'ipotesi progettuale: dai laboratori alla prospettiva di un centro di formazione. Questo perché si ritiene che avere una nuova università di ingegneria, una nuova università tecnica, possa tornare utile anche per poter avere dei tecnici preparati per dare continuità alle nostre aziende.
L'idea di portare anche operatori del settore per far diventare questo luogo e, di riflesso, tutto il territorio, un attrattore
Diciamo che l'idea forte di tutto questo progetto, che è l’idea del Futuro di questi territori, sarà proprio mantenere parte della conoscenza prodotta in questi luoghi. Inoltre, questo nuovo polo tecnologico comprende anche tutta una parte destinata al cittadino che può entrare, studiare, lavorare, senza dover chiedere nulla ed entrando a far parte di questa realtà. Il polo tecnologico non va inteso come qualcosa di estraneo ai cittadini, facendo sì che il NOI Techpark diventi una parte dell’identità territoriale.
Per mantenere sul territorio conoscenze, persone, capitali, savoir faire, il ruolo del pubblico diventa fondamentale. A questo proposito lo studio CLAA ha molto lavorato negli scorsi anni nel settore pubblico, realizzando scuole, palazzetti per lo sport… Volete raccontarci qualcosa della vostra esperienza pregressa? Come è strutturato lo studio oggi, su quali ambiti lavora?
Insieme all’architetto Angelo Rinaldi e all'architetto Daniela Varnier non ci precludiamo nessun ambito, però è vera l'osservazione che lei ha fatto che il nostro impegno è prevalentemente nell'ambito pubblico.
Per troppo tempo noi, in Italia, abbiamo pensato che alcune tipologie edilizie, come appunto le scuole, gli asili e via dicendo, erano oggetti poco importanti che potevano essere progettati da chiunque, con poca cura, bastava che il tutto funzionasse secondo le normative.
Invece, questi luoghi sono talmente importanti, soprattutto per la nostra formazione, per i nostri giovani, che è fondamentale metterci tutta la cura necessaria. Metterci tutta la qualità di cui siamo capaci, perché questo poi influenzerà tutta la loro vita, la loro percezione di come è il mondo.
Un altro caso è il termovalorizzatore di Bolzano, anche in questo caso abbiamo avuto molta cura dell’architettura, pur essendo un luogo estremo dove si trattano i rifiuti urbani di una città, si bruciano, si trasformano in energia, un luogo dove si ha l'impressione che dentro ci sia poco spazio per la vita umana. In questo caso, il mio compito è stato quello di renderlo un luogo vivibile anche attraverso l'uso del colore.
Partendo proprio dal progetto di un edificio scolastico, la scuola professionale Hannah Arendt a Bolzano, quali sono i temi, gli aspetti compositivi e tecnologici dietro la scelta di un’architettura ipogea inserita nel tessuto storico della città?
Questa è l'unica scuola ipogea al mondo a quattro piano sottoterra, di cui tre destinati alla didattica e uno destinato agli impianti. Il progetto prende le mosse qualche anno fa, quando la nostra Provincia acquisì parte di un vecchio convento dei Cappuccini nel centro storico di Bolzano e lo trasformò in una scuola professionale. Negli anni l’istituto ricevette sempre più richieste di iscrizione fino ad arrivare ad un punto in cui gli spazi esistenti non erano sufficienti.
Siccome si tratta di un edificio posto sotta la tutela storico-monumentale non è stato possibile apportare modifiche che ne compromettessero l’integrità. L’unico modo per effettuare un ampliamento era dunque quello di costruire sottoterra! Questo ha richiesto una modifica delle normative, l’investimento di ingenti capitali e soprattutto non si sapeva con precisione come avrebbe potuto funzionare, come sarebbe stato accettato.
Invece, è stata un'esperienza entusiasmante, devo dire che, a distanza di quattro anni da quando è finita, ci sono migliaia di visitatori ogni anno che vengono a vedere la scuola e ci sono circa 300 studenti che la frequentano tutti i giorni e che ci vivono benissimo.
C'è molta luce, c'è una qualità termo-igrometrica sorprendente visto che la terra funge anche come isolante, non si percepisce nessun rumore esterno. Al contempo si vede fuori, si vede il cielo, si vedono alcuni edifici vicini, si vedono alcuni alberi ma non si percepisce il caos della città. È uno spazio che accoglie, è molto sereno, bisogna farne esperienza per percepirlo appieno, una fotografia fa fatica a raccontarlo.
Potrei dire che è come se la nostra piccola realtà avesse dato un piccolo segnale al mondo intero: è possibile utilizzare il sottosuolo molto meglio di quello che stiamo facendo, evitando magari di costruire solo grattacieli che cambiano in maniera radicale il microclima ambientale e qualche volta sono anche poco sicuri.
Quindi, a proposito della costruzione della scuola, possiamo dire che la parte più complessa era lo scavo, le fondazioni e poi tutta la parte tecnologica, per mantenere una qualità di vita internamente molto alta era necessario creare una serie di aperture e climatizzare gli spazi. Insomma, avevate davanti delle importanti sfide tecnologiche-compositive…
Avevamo la certezza che la tecnologia ci sarebbe stata di supporto…quello di cui non avevamo certezza erano gli eventuali problemi psicologici legati alla claustrofobia. Va detto che la luce zenitale è tre volte più intensa, l’edificio ha dei grandi lucernai che lasciano trapassare la luce e quindi le persone non hanno la percezione di essere in un luogo buio, umido e sfortunato.
È un luogo molto particolare, dove il problema della percezione claustrofobica è stato risolto anche con delle pareti trasparenti: le aule sono tutte vetrate e anche le pareti perimetrali, in questo modo si può sempre rivolgere lo sguardo verso l'esterno. Inoltre, abbiamo testato che la quantità di CO2 è costantemente monitorata dal sistema di ventilazione forzata e che ha un ricambio costante efficiente.
Con chi avete sviluppato queste soluzioni tecnologiche?
Particolarmente interessante è stato il caso della parete perimetrale. Tra l’edificio costruito e la roccia vi è un vuoto, in maniera tale da percepire l’effetto di scavo. Per mantenere l’irregolarità della parete esterna la superficie è stata trattato con uno strato di cemento “non rifinito”.
Con la ditta Omniatec di Merano abbiamo proposto una soluzione assolutamente innovativa: abbiamo spruzzato sul cemento del poliuretano liquido (isolante) che seguiva l'andamento casuale dello scavo, della roccia. Dopodiché abbiamo spruzzato una struttura molto elastica per poi apporre un sottile manto di intonaco per proteggere l’edificio anche dal punto di vista antincendio. A prima vista, questa soluzione non sembrava superare il controllo antincendio, ma alcuni campioni della parete sono stati testati in un laboratorio specializzato per garantirne la sicurezza e sono risultati idonei.
Quando si sperimentano cose nuove, spesso e volentieri si deve anche rincorrere poi l'omologazione dei materiali, delle tecnologie, delle lavorazioni nuove, non collaudate...questo è anche il modo per fare un passo avanti, per innovare.
Passando invece al progetto del termovalorizzatore di Bolzano, in questo caso l’idea era differente: nascondere…
Il termovalorizzatore si trova all’ingresso della città di Bolzano, in linea con l’autostrada, pur essendo un impianto tecnologicamente avanzato, con inquinanti minimi, il fumo che esce dal camino dà un’immagine poco salubre all’arrivo di questa città.
Ci troviamo in un territorio meraviglioso, fatto di colline, montagne verdi e dalle famose Dolomiti, quindi l’intento era di ri-creare questo panorama, questo paesaggio naturale, in armonia con il contesto attraverso pannelli coibentati in metallo, con lamiere in rame ossidate e lamiere forate realizzate da Pichler, in modo da combinare al meglio sia la qualità tecnologica che la sensibilità architettonica.
Abbiamo, dunque, creato con il progetto per il termovalorizzatore un ambiente in cui è possibile lavorare e vivere con serenità, uno spazio accogliente. Insomma, gli architetti devono occuparsi più degli oggetti architettonici e costruire panorami urbani in cui far vivere bene le persone.