ArchiTALKS di Alvisi Kirimoto: la lezione - ISPLORA
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ArchiTALKS #7: Alvisi Kirimoto

Architetti

“Ho sempre pensato che l'architetto sia un’antenna, un'antenna del territorio, capace di recepire le sensibilità, i cambiamenti, i movimenti che la città offre. La cosa più importante è poter immaginare l'architetto come qualcuno che sia in grado di cambiare il mondo.”

La lezione si sviluppa a partire dalla biografia dei due fondatori dello studio, due percorsi e due culture differenti e al contempo complementari

Da un lato le esperienze di Junko Kirimoto, a cavallo fra arte e architettura,  all’università di Kyoto e poi con architetti giapponesi di fama mondiale come Shin Takamatsu e Kazuyo Sejima, fino all’arrivo in Italia e alla collaborazione con Massimiliano Fuksas.

Dall’altro Massimo Alvisi e la sua formazione presso la facoltà di architettura di Firenze, con le collaborazioni con Thomas Herzog e Renzo Piano. Con quest’ultimo l’architetto Alvisi lavorerà fianco a fianco per otto anni per importanti cantieri come quello di Potsdamer Platz a Berlino e quello dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Seguiranno poi altre figure fondamentali come Oscar Niemeyer e Rem Koolhaas, con cui l’architetto collaborerà negli anni.

I grandi architetti con cui abbiamo avuto modo di collaborare continuano ad agire inconsapevolmente nei nostri lavori: l'idea della scomposizione per parti, ad esempio, che ho imparato, tra le altre cose, da Renzo Piano, l'idea di un concept e di immaginare l'inizio del progetto come una discussione filosofica di Rem Koolhaas o la forza di portare la vita dentro i progetti di Oscar Niemeyer. Tutto questo influenza quotidianamente il nostro essere il nostro modo di fare. I nostri progetti per un teatro, per una piccola abitazione, per un pezzo di città, per un edificio industriale, risentono di queste esperienze, dei loro insegnamenti. Ovviamente, poi, noi li trasformiamo con le nostre sensibilità, con la nostra vita che cambia.

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Una ricerca continua e sempre in evoluzione, quella portata avanti da Alvisi e Kirimoto, dove ad emergere è un atteggiamento di ascolto e “sintesi della complessità”, una dimensione “sartoriale” applicata ai progetti, dove al centro vi sono le persone e i loro bisogni.

La parte di ricerca iniziale è molto lunga, può portare via due-tre settimane, anche un mese in alcuni casi, perché i nostri progetti sono tagliati a misura del luogo, del cliente o delle persone che vivranno quello spazio. [...] Bisogna capire quali sono le loro necessità, cerchiamo di non fare nulla che sia inappropriato e non dobbiamo avere paura di pensare ai nostri progetti come perfettamente inseriti nel luogo in cui dovranno evolversi. Anche questa idea che il progetto sia sempre in evoluzione è fondamentale: il concetto di evoluzione dell'architettura è necessario e fa parte del nostro metodo di ricerca. Iniziamo sempre analizzando, ricercando, ascoltando, provando a far lavorare l'antenna per riuscire a raccogliere il più possibile le fonti esterne.

Questa idea della dimensione sartoriale però non ci limita nella scelta dei progetti, possiamo passare da un progetto più grande è un progetto più piccolo, fino a progetti di infinita scala, di scala piccolissima, perché il nostro metodo sartoriale ha delle risposte univoche per ogni progetto. Nasco come urbanista, quindi le mie risposte sono quasi sempre legate ai fenomeni sociologici che la città e i territori e la geografia offre, ma se ci pensiamo bene questi fenomeni invadono anche il mondo della sfera privata, come una piccola casa. Abbiamo quasi sempre l'idea che così come il flusso delle attività sociali influenzi la città, il flusso in un ambito domestico debba influenzare le scelte architettoniche, ed è così che riusciamo a passare facilmente da una scala all'altra.



Un approccio messo in tensione anche durante il periodo di lavoro sulle periferie italiane portato avanti dal gruppo di lavoro G124 coordinato da Renzo Piano :

Lavorando anche in questo caso su un'idea di trasformazione delle periferie ma su un livello di intervento che noi definiamo rammendo. Il rammendo esprime esattamente l'idea di dover intervenire attraverso piccoli gesti, piccole modifiche, piccoli interventi, che non significa non importanti, significa piccoli perché lavorare in periferia comporta per un architetto una dimensione sociale e un'attenzione sociale di grande sensibilità.

Sono proprio l’atteggiamento e le opere il nodo centrale della lezione: muovendo dagli elementi e i passaggi che portano alla realizzazione: i modelli, la ricerca e il rapporto con il paesaggio - non solo fisico - e con il cliente, le fasi del progetto, i materiali e il cantiere. Le realizzazioni raccontano una sperimentazione continua attraverso gli spazi e i luoghi, dalla Cantina Podernuovo della famiglia Bulgari agli HQ Casillo. Vi è poi il racconto della progettazione di molti e importanti teatri (Corato, Napoli e San Pietroburgo) e auditorium (LUISS Roma) avvenuta nel confronto con il costruito e la storia del luogo, tentando sempre di assimilarne la natura. Per finire con la descrizione della realizzazione di spazi immaginifici per uffici, come nel caso del progetto a Chicago, dove si intrecciano le dimensione urbana e dimensione privata in un unico spazio.

Siamo al trentaduesimo piano di un grattacielo che è stato costruito mentre noi realizzavamo il progetto, siamo all'interno di downtown a chicago,[...] abbiamo immaginato questo spazio come uno spazio urbano, fatto di assi, di vie, fatto di percorsi visivi, di piccole piazze, di attività da scoprire nel percorso. L'idea di un ambiente che non fosse un luogo di lavoro ma un pezzo di comunità

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Emerge, dalle loro parole, la volontà di predisporre uno spazio che vede protagonista la percezione del fruitore, reale protagonista dello spazio.

Il primo percorso che facciamo reale superata la fase di ricerca è quello di lavorare con dei modellini, dei modellini di carta, paper works, hands work. Questo deriva moltissimo anche dall’incredibile capacità e sensibilità di Junko Kirimoto di manipolare lo spazio e poterlo immaginare attraverso delle piccole pieghe, attraverso la manipolazione e la modifica in modo semplice anche se, poi, il risultato sarà molto complesso.



Lungo la narrazione prende corpo il concetto dell’architetto come “antenna capace di recepire i cambiamenti”, un professionista che ha l’obiettivo di gestire la complessità, una figura professionale che ha un ruolo civile, con delle responsabilità sia sul territorio che sulla società.

Mi viene sempre in mente Brunelleschi quando devo immaginare il futuro dell'architetto… Forse è stato il primo vero grande architetto a gestire la complessità della costruzione. Brunelleschi gestisce una miriade di operai, realizza modellini per spiegare il progetto, organizza il lavoro in modo molto moderno, forse lui è ancora l'esempio del nostro futuro in qualche modo. [...] L’architetto dovrà sempre di più conoscere, studiare, saper gestire i flussi di informazioni, coordinare sempre di più i differenti saperi e le differenti discipline, un po’ come un direttore d'orchestra. Non ho mai pensato all'architetto come un artista da solo che disegna nel suo ufficio, ho sempre pensato all'architetto come un uomo di strada, che percepisce la dimensione urbana, le attività che nascono e deve necessariamente vivere nel mondo in cui si trova, immaginando il futuro.



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